Mi hanno molto colpito le testimonianze di alcuni dei migliori cervelli forlivesi, interpellati dal Carlino di Forlì nei giorni scorsi, emigrati in altri Paesi alla ricerca di fortuna (spesso trovata, con merito).
La fuga dei cervelli è un processo naturale che avviene in tutti i paesi sviluppati; anzi forse oggi dovrebbe essere considerato un fatto naturale e di per sè non un fatto solo negativo. Ci si sposta là dove vengono offerte maggiori opportunità e dove ci sono condizioni contrattuali migliori. Con l’aumento dell’istruzione e con l’acquisizione di alte competenze chi cerca lavoro lo fa alzando l’asticella. Dunque di per sè la ‘fuga’ dei cervelli non è necessariamente negativa; compiere un’esperienza professionale all’estero è tra le prove più formative che si possano compiere nella vita. Il problema comincia quando una volta partiti, non si vuole più tornare. E questo è ciò che sta avvenendo in tutta Italia, dunque anche a Forlì.
In Italia la percentuale di persone con un’alta istruzione che decide di partire è molto più alta degli altri paesi; ma forse il problema maggiore è che queste energie dopo un’esperienza all’estero, molto spesso decidono di non rientrare più. Per tanti motivi: per la burocrazia, per le precarie condizioni di lavoro, per l’ingessamento del sistema della ricerca, per l’assenza di una ‘vision’ del Paese e dunque di opportunità. Nel 1914 Henry Ford aveva elevato al doppio la paga media di un lavoratore del settore industriale. Se l’azione aveva da un lato l’obiettivo di aumentare i consumi e l’efficienza del personale impiegato, dall’altro mirava a raccogliere e trattenere in patria le energie migliori del paese. Evidentemente aveva capito qualcosa che oggi, in Italia, sembra ancora difficile da comprendere per molti.
Il nodo della questione è che chi va via non torna più indietro e l’Italia finisce per pagare la formazione (spesso anche ben qualificata) a persone che poi offriranno le loro competenze ad altri paesi, che magari competono con il nostro. Ma c’è di più: non se ne vanno solo i ‘migliori’, ma anche ragazze e ragazzi che non vedono prospettive in Italia e decidono di partire: zaino in spalla, alla ricerca di nuovi orizzonti.
Certo, non dobbiamo cadere nel pssimismo cronico che attraversa questi tempi difficili. Anche in Italia ci sono casi di giovani che hanno studiato qui (o all’estero) e sempre qui hanno trovato successo. Fortunatamente non siamo solo un Paese di ‘bamboccioni’ o raccomandati. Tutt’altro. C’è anche chi decide di battersi entro i confini nazionali e pur con tante difficoltà, riesce ad “arrivare”. Oppure semplicemente non si rassegna e continua a lottare.
Allora ciò che dobbiamo fare, ciò che deve fare l’Italia e ciò che possono provare a fare le piccole comunità locali, è creare le condizioni per un mercato del lavoro che sia più meritocratico, che conti di più cosa conosci rispetto a chi conosci. Creare le condizioni affinchè i cervelli formati qui possano, almeno in parte, trovare qui la possibilità di valorizzare le proprie capacità e soprattutto realizzare in Italia il proprio progetto di vita. ??Una prima inversione di rotta è arrivata con gli incentivi alle nuove assunzioni di giovani, ma non basta: bisogna insistere su questo punto e soprattutto sul sostegno alle imprese, sul trasferimento delle competenze dall’Università alle aziende. Forlì, con il patrimonio della sua qualificata presenza universitaria, può dare un valido contributo a questo scopo.
In fondo perché dobbiamo smettere di credere che a piccoli pezzi non si possa creare un’ Italia diversa, capace anch’essa di trattenere e attrarre talenti?